Quel giorno mi hanno investito.
Era a fine anno scolastico, ricordo la primavera, a Sassari, allora, la sezione staccata della mia scuola elementare, Porcellana, era in via sardegna, l’Angelicum. La via è in discesa, e in quel tratto, stretta, le macchine si posteggiavano da entrambi i lati della strada e il traffico automobilistico, al contrario di come è ora, scorreva dall’alto verso il basso.
Ero vestito leggero, forse una maglietta, e l’immancabile zaino a tracolla, otto, forse nove anni, non son mai stato bravo a calcolare istantaneamente età e classi scolastiche, ma mio padre era già mancato.
Non ero allegro ma nemmeno triste quel giorno, suonata la campana facevamo le scale di corsa, due piani, forse salutavamo educatamente la maestra Lina o forse uscivamo senza farlo, più probabile la prima ipotesi. Giù, all’uscita della scuola, la classica vetrata doppia aperta e la cancellata a rombi a soffietto, spalancata. Correvo, forse inseguito, mai ricorderò perché correvo ma lo facevo spesso, forse la rabbia forse il dolore, forse il male, l’ignoto, forse sfuggivo da tutto, o forse volevo semplicemente raggiungere un posto che ancora non ho trovato.
Passi lunghi sulle scale.
Abituato a scendere dal palazzo di piazza Mazzotti per sei piani, facendo le scale a tre a tre, ero imbattibile nel scendere le scale. Varcata l’uscita una macchina era esattamente posteggiata in modo che non si potesse passare, allora son sceso per scartarla, ero velocissimo, bravissimo nello scartare le macchine posteggiate. Sono andato verso il basso, credo perché la forza di gravità mi avrebbe aiutato ad accelerare ancora di più, o forse solo perché il cofano della macchina era più vicino alla coda. Non so perché stavo per attraversare, ma è probabile che stessi zigzagando tra le macchine per seminare eventuali inseguitori. Ero bravissimo evidentemente anche nel farmi inseguire.
Mi sono infilato tra il cofano della macchina posteggiata di fronte alla scuola e la coda dell’altra macchina, la mano sulla seconda macchina come a far da perno ed evitare di volare sulla macchina con lo zaino, a causa delle leggi fisiche che governano gli zainetti sulle spalle.
Piede sinistro di nuovo in trazione, la forza di ritorno dello zaino che, finalmente, restituisce energia e spinta, e subito il destro che spinge, ero bravissimo ad arrivare dall’altro lato della strada come un fulmine, ma quel giorno non ci sono arrivato.
Forse due passi, o uno e mezzo, una fiat 850 celestina sfrecciava veloce davanti alla scuola, io ero nella sua traiettoria, non so quando l’ho vista, è stato un attimo, il più istantaneo degli attimi della mia vita, fatta di istanti spesso lunghissimi. Pianto i piedi, paralleli, non so come ho fatto, con le mani sul petto mi spingo indietro come per fermarmi, e, mi sono fermato, nessuna legge fisica prevedeva che lo facessi, lo zaino stesso spingeva il mio corpo veloce davanti a quella macchina, ma io mi son fermato.
La signora, datata, che sfrecciava nella sua 850 celestina in via sardegna, in quell’istante non si è accorta che io avevo quasi investito la sua macchina, i piedi hanno sfiorato le gomme, il viso ha visto i finestrini credo a pochi micron. E la mano, il suo dorso, mentre premeva il corpo per fermarlo, ha urtato la maniglie della macchina, una bellissima maniglia cromata ha urtato come un coltello la mia mano, unico punto di contatto, nessun dolore, non si soffre mai quando ci si rende conto di essere stati ad un istante dalla morte, anzi, sembra ci sia sollievo. Ho guardato la macchina scendere veloce, con la signora datata, poi ho riassunto lentamente quanto avevo vissuto, lo faccio da sempre e lo faccio ancora per qualunque cosa ritenga importante. Quel giorno non mi hanno investito, e credo da quel giorno, mai più nessuno mi avrebbe investito.
Quel giorno non mi hanno investito.
e io quel giorno non lo dimenticherò mai.
Cesare
19 Giugno 2015