Sono andato via senza sbattere la porta
Mi son girato e ho agguantato la maniglia, quella porta era stata appena sbattuta, ma non si era chiusa, allora l’ho spinta più forte che ho potuto. In quella casa una riunione di persona che immaginavo care, quella gente così grande, ed io così piccolo, senza nessuno, piccolo come me, diventato grande in un istante, un attimo prima ero molto sereno, anche se triste visto il periodo, ma sereno, protetto, fino a un attimo prima, e poi non più, protetto sì, ma sereno no, forse mai più.
Quelle persone diventano gente, quella casa diventa un posto, quella situazione diventa uno scudo.
Da subito, a quell’età, mi rendo conto che sicuramente le cose davanti ai piccoli vanno dette senza nessun problema. Irriverenti? Irresponsabili? Crudi? Educativi? Lo scoprirò più avanti negli anni.
Mi son girato e ho chiuso la porta, avevo bisogno di disciplina, nemmeno maggiorenne, avevo una strada dietro le spalle che forse solo lo sport, e un po’ di fortuna, non hanno curvato o interrotto eccessivamente. Una serie di fallimenti spesso dovuti alla solita ignoranza, ignoranza di chi, col potere estremo del giudice, segna la vita a chi, impotente, vive la sua, naturalmente inesperta. Giudici che sfogano su altri cose che hanno segnato la loro vita, una catena infinita, senza possibilità che venga resettata mai, un loop infinito che pochi riescono a interrompere. Ho chiuso quella porta sbattendola in faccia alla finta adolescenza vissuta, senza la continuità di un amore che forse non meritavo, ma che sicuramente mi avrebbe fatto bene, senza la naturale abitudine di una compagnia stabile e rassicurante, violentato dagli eventi ne sono diventato immune.
Mi son girato e sono andato via, urlando, tradito dal mercato della mancata meritocrazia, sono andato via quasi camminando sulle acque. Di torti così grandi da piccolo, di torti immensi quando ero grande, già da piccolo, di torti che ridimensionano tutto quello che è già assimilato, dandogli altre forme, di fiducia mai concessa, in ambienti dove era difficile anche stare male veramente, e non certo dentro l’anima. Ci son luoghi dove si nega l’evidenza del vedere le persone mutilate, troppi, con poteri che credono illimitati, vedono le tue braccia nascoste dietro la schiena, anche se tu le braccia le hai perse e gliele hai portate con la bocca lasciandole ai loro piedi, perché questo si aspettavano da te.
Mi son girato e sono andato via, senza passare dal via, senza riscuotere il dovuto, senza sbattere la porta di un ufficio che mi ha aperto altre realtà, la porta di una barba che nascondeva una persona esile e meschina, di un lavoro che mi ha preso il cuore oltre che la mente, un lavoro che avevo scelto ad altri, che insegnavo mentre lo imparavo a chi in me riponeva fiducia, un lavoro che facevo con tutta l’esperienza dei passi percorsi nei corridoi che finivano con porte, troppo spesso sbattute. E girandomi e andando via ho lasciato la serenità di un ambiente che non essendo vincolato a rigide regole, dove apparentemente non c’erano più giudici e giudizi, doveva essere un comodo e rasserenante divano davanti camino acceso, mentre invece era solo una sedia rotta, le cui schegge lacerano ancora il midollo della fiducia riposta.
Mi son girato ancora, questa volta lentamente, senza sbattere la porta, porta di un fallimento non comune, che attribuisco, solo ora, all’ignoranza. Sapere che la scelta giusta sarebbe stata istintivamente la prima, solo dopo, non consola, non tempra, non fa crescere, lascia invece l’arrogante dichiarazione di voler rifare tutto fino a questo istante. Al fianco di quella porta non sbattuta, il passavivande della mia immortalità, il cui tempo si perderà negli altri, e solo oggi la speranza che pochi pensieri, o magari anche uno solo, arrivino al futuro.
Mi son girato senza fretta, il tempo, passato a cercare dei perché, che hanno preso corpo solo dopo molto tempo, quel tempo, passato con me stesso, da solo, come è preferibile, essendo io di quelli che la frase giusta la trova magari dopo un ora, o dopo giorno, o anni, ma sempre senza gli interlocutori, quel tempo non è stato perduto, ma ha riempito la borraccia della mia sete di serenità, dalla quale bevo forse troppo avidamente, lasciandola costantemente vuota.
Di tutte quelle porte, chiuse per sempre a chiave, ricordo intarsi, sfumature e cigolii, ma sono comunque riuscito a chiuderle.
La mia porta, al contrario, è sempre aperta.
E le chiavi le consegno a tutti.
Cesare
21 Giugno 2016